bestie da soma

Bestie da soma, cm. 243 x 414, L’Aquila, collezioni d’arte dell’Amministrazione provinciale in deposito temporaneo presso la Pinacoteca civica “T. Patini” di Castel di Sangro

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In quella tavoletta dedicata “all’amico de Nino”, sulla quale aveva d’impulso tratteggiato a matita nel suo paese la scena delle tre legnatrici stremate integrandola ed ambientandola nell’aspra natura circostante con qualche rapida macchia di colore, risultava già delineata la sostanza pittorica e tematica da cui prese forza e vigore Bestie da soma, l’imponente dipinto che Patini licenziò nel 1886 e che, presentato l’anno appresso all'Esposizione Nazionale di Venezia, venne più tardi acquistato dalla Amministrazione provinciale dell'Aquila per l'ampia sala del Consiglio. Durante la mostra veneziana, Francesco Paolo Michetti gli telegrafò che il quadro era stato «piazzato splendidamente» e «produceva viva sensazione agli Artisti» e Gaetano De Martino, autorevole estimatore di entrambi, precisò che esso era stato «collocato […] in un salone molto grande, e di faccia al quadro del Cammarano» grazie anche all’interessamento di Michetti oltreché suo. «La figura in piedi è inarrivabile, e richiama la più alta ammirazione di tutti», soggiungeva, elencando altri pregi ravvisati nell’opera, in cui fu poi esaltata la stanchezza mortale delle tre emblematiche protagoniste, sfinite e sfibrate, arse dal sole ed annientate dalla impietosa canicola. Accampandole a grandezza maggiore del naturale nell’ampia tela, descrivendole durante la breve sosta a mezza costa della incombente erta montana, che, fra un riverbero di calure, si perde verso l’alto senza trovare più spazio per un frammento di cielo e di speranza, e mettendo in risalto le corde incrociate sul petto martoriato per assicurare sulle fragili spalle, secondo l’usanza di Rocca Pia, le pesanti fascine da trasportare a valle dalla montagna pietrosa, il Maestro intese rivolgere e richiamare tutta la necessaria attenzione sulla ingrata e tragica esistenza, riservata, senza distinzione di età, alla condizione femminile. Alla vecchia distesa a palpebre abbassate ed ormai incapace di ogni speranza, verso la quale ancora si perdono invece gli occhi della giovinetta seduta lì accanto, contrappose la “monumentalità da rozza colonna” della contadina in piedi, nella quale la gonna rimboccata alla cintola per non farla sciupare durante il lavoro, secondo la foggia diffusa e seguita pure dalle sue compagne, sembra come volta a proteggere l'incipiente gravidanza. Ponendo al centro del dipinto proprio lei, che sta per dare alla luce il piccolo che allatterà fra le zolle di Vanga e latte e che, ignaro di essere condannato alla stessa sorte paterna, si baloccherà con le cipolle nell'Erede, Patini ritenne di aver concluso il ciclo di quella "trilogia" con cui aveva «accompagnato l'eroe della gleba/ nella sua sofferenza/ dal nascere al morire», come annotò sul verso delle fotografie dei tre quadri offerte in dono al deputato Enrico Ferri, insigne teorico del diritto penale e fra i maggiori assertori del socialismo riformista. Per cui questo, che fu l’ultimo dei tre quadri ad essere dipinto, equivale a quello da cui partire per la lettura dei contenuti. La decisiva evoluzione intervenuta in Bestie da soma si coglie sia nel modellato, rispetto al primitivo plasticismo chiaroscurato, sia nel cromatismo, che risulta più articolato e ricco di modulazioni e di squillanti accensioni rispetto al passato, grazie all'impiego di una tavolozza dalle ben più vaste e sensibili implicanze. Lo stesso inserimento della scena nel paesaggio, in una perfetta fusione degli elementi pittorici, oltreché compositivi, rappresenta forse la più importante conquista. L'infierire degli elementi e l'avversità di una natura, che concorre senza misericordia alla durezza del vivere, vengono, infatti, evidenziate attraverso l'efficace annotazione del suolo arido e brullo, delle rocce affioranti fra pochi cespi verdi. La sensibilità materica con cui sono trattati i brani riservati alle rupi ed alla pietraia sono squarci di grande liricità pittorica che si sposano in perfetto equilibrio con l'esecuzione delle figure, nella cui costruzione occupa un posto di grande rilievo la vigorosa e netta scansione delle ombre volte a dare il migliore risalto alla solarità che tutto avvolge e di cui vive il dipinto. Il risultato è ottenuto con l'estrema scioltezza di una operazione creativa in cui sono confluiti gli insegnamenti assorbiti sia dalla tradizione accademica sia dal magistero palizziano e dalle varie esperienze nella pittura “dal vero” vissute a Firenze ed a Roma, oltreché dagli affreschi dell’acquario di Napoli, dando luogo ad una rinnovata capacità di suggerire il dato reale attraverso un colloquio diretto con la natura in una proposizione linguistica ed interpretativa del tutto personale.

Testo di Cosimo Savastano a cura di Raffaella Dell'Erede