l'erede

L'erede, riedizione tarda, olio su tela, cm. 132 x 176, Calascio, collezioni d'arte del Municipio

Pat3

«Erede di che? di lavoro, di sofferenze, di miseria, ma che in sé contiene il germe delle grandi riforme sociali», scriveva Patini presentando L'erede, il dipinto da lui licenziato nel 1880 che «segnò nell’arte italiana dell’Ottocento uno dei successi più clamorosi» fin da quando fu premiato nella Esposizione Nazionale di Milano del 1881, al punto che «l’Artista, la notorietà del quale era ristretta a Napoli e Roma […] divenne celebre in un giorno e acclamato da tutti». Lo testimoniò Primo Levi l’Italico, sottolineando come, fin dal primo momento, l’opera avesse «scosso la gente di pensiero e […] spaventato la gente di piacere». Allargando i termini della già aspra polemica sul “Risorgimento tradito” e nel pieno spirito della nascente “Questione meridionale”, vi aveva affrontato, per primo in Europa, la cronaca spietatamente oggettiva e la storicizzazione ad occhio asciutto degli aspetti più drammatici di una realtà ampiamente diffusa fra le classi rurali dell’Italia tardo ottocentesca, prendendo a campione le emergenze di indigenza e sottosviluppo colpevolmente diffuse ed esasperate lungo la dorsale appenninica del centro – sud. Contrariamente a quanto è stato talora affermato, con quel quadro, Patini non voleva commuovere o impietosire, ma suscitare una «impressione […] spiacevole e fatta apposta per urtare i nervi delicati di chi porta guanti e calze di seta», come dichiarò nella lettera inviata all’insigne pittore milanese Eleuterio Pagliano. Una replica dell’opera fu realizzata dal pittore per Luigi Frasca, l’agiato argentario di Calascio, presso L’Aquila, a cui fu rimessa nel 1906. Attraverso il fraseggio decisamente più libero e sciolto rispetto alle propensioni linguistiche evidenziate nella prima edizione del dipinto, in cui «la tecnica poteva sembrare un po’ invecchiata», come scrisse Primo Levi, Patini vi ripropose, con qualche piccola variante nella scelta degli oggetti – simbolo posti a corredo dell’ambiente, lo stesso motivo tematico. Il giovane contadino precocemente stroncato dalle fatiche, che, ricoperto dal frammento di coltre insufficiente persino a ricoprirgli le gambe divaricate dopo essere stato spogliato degli abiti consunti e delle scarpe sformate troppo preziosi per seppellirli con lui, è stato deposto sul pavimento sbrecciato accanto alla donna che nasconde il volto fra le braccia appoggiate sulla cassapanca del corredo nuziale, unico arredo dell’unico vano abitativo con il focolare spento e il graticciato d’assi per il ricovero del somaro. Ai loro piedi giace, nudo fra i cenci come un Bambinello da presepe, il loro nato, che stringe fra le mani una cipolla, frutto delle fatiche senza adeguato compenso nella cui inclemenza si perpetua da generazioni l’unico retaggio possibile fino a questo bimbo ancora ignaro di essere l’ultimo anello della infinita catena di diseredati, che potrà venire spezzata e interrotta solo quando gli uomini decideranno di adottare i più adeguati ed umani provvedimenti legislativi per la cui promulgazione il pittore continuò lungamente a battersi.

Testo di Cosimo Savastano a cura di Raffaella Dell'Erede